Ripercorriamo le tappe che hanno portato alla creazione del Corpo Alpino.
Nelle immagini, in ordine:
1- monumento al Generale Perrucchetti
2- i fratelli Calvi
3- campagna di Russia
4- L’indimenticato Leonardo Caprioli
di Marco Cimmino
Il Corpo degli Alpini non è certamente il più antico delle nostre Forze Armate: i Granatieri di Sardegna, ad esempio, rimontano al 1659 e anche i Bersaglieri, rivali-fratelli dei fanti di montagna, sono nati nel 1836. Fu solo nel 1872, a unità nazionale avvenuta e a guerre risorgimentali finite, che un alacre e intelligente capitano di SM, Giuseppe Perrucchetti, da Cassano d’Adda, si vide approvare dal suo Ministro, il generale Ricotti, un progetto che prevedeva, per la difesa delle valli alpine, l’utilizzo di milizie a reclutamento locale e specializzate nelle operazioni in montagna.
Perrucchetti era uno di quegli ufficiali di nuova generazione, cresciuti a pane e pragmatismo e, in qualche misura, liberi dalle pastoie sentimentali e filosofiche del primo Risorgimento: la sua impostazione era rivolta all’applicazione della logica e delle praticità, nei diversi contesti operativi. Tant’è che a lui si deve il primo piano di difesa contro un eventuale attacco da parte dell’Austria-Ungheria, stilato nel 1880 e che già prevedeva una linea di massima resistenza basata sul fiume Piave e sul massiccio del Grappa: profetico antivedere, ma anche analisi senza pregiudizi della topografia e dell’orografia del campo di battaglia. Dunque, in un prevedibile scenario bellico, il baluardo alpino andava difeso: su questo non c’erano dubbi, mentre molte ipotesi si facevano, all’epoca, sulle modalità di questa difesa. La teoria che riscuoteva maggior credito era quella del sistema “a tenaglie”, con fortificazioni fisse, sia in quota che nel fondovalle, che sbarrassero gli accessi: un esempio caratteristico di questo concetto di difesa fissa è rappresentato dallo sbarramento austroungarico di Lardaro, nella valle del Chiese, imperniato su due forti (Larino e Revegler) a blocco della rotabile e altri due in quota (Corno e Cariola), per il tiro a lunga gittata. In un certo senso, l’idea di Perrucchetti anticipava i tempi, fondandosi sull’utilizzo di milizie mobili, in grado di operare per manovre aggiranti, con rapide avanzate e ritirate in un terreno ben conosciuto: la storia, poi, senza scomodare Von Brandis, avrebbe dimostrato l’inutilità degli enormi forti corazzati del Conradzeit, decisamente vulnerabili contro truppe addestrate operanti in piccoli gruppi.
Così, Perrucchetti immaginò dei reparti (originariamente furono compagnie) di valligiani, già abili per vocazione nel tiro e nel camouflage, robusti e temprati alle fatiche della montagna, che, guidati da ufficiali dalla formazione ortodossa, ma già esperti di alpinismo o frequentatori, per sport delle Alpi, potessero efficacemente contendere il passaggio ad eventuali incursioni o invasioni avversarie.
Nel 1872, era terminata da soli sei anni la terza ed ultima guerra d’indipendenza: riecheggiavano, nei corridoi del Ministero della Guerra, le delusioni di Custoza e di Lissa e l’autostima delle nostre Forze Armate stava, faticosamente, risalendo, dopo quei minimi storici: le campagne africane di Crispi erano ancora lontane all’orizzonte, perciò, in quel periodo, per così dire, d’inerzia, l’Italia si adoperò per un rinnovamento del proprio assetto militare, riflettendo sugli errori passati e cercando di investire nel futuro: gli Alpini nacquero, dunque, in questo contesto, di rinnovamento e di rafforzamento delle strutture delle nostre Forze Armate. Il punto chiave era: contro chi avrebbero dovuto essere schierati i fanti con la penna? Nel 1872, l’Austria era vista come il nemico ereditario e la Francia, con cui erano stati intessuti, durante il Risorgimento, buoni rapporti, cominciava a mostrarsi un vicino scomodo, soprattutto in chiave africana, stanti gli interessi contrastanti dei due paesi, che, dieci anni dopo, avrebbero portato al trattato del Bardo e alla netta rottura. Proprio nel 1882, l’adesione italiana alla Triplice avrebbe, poi, ribaltato gli assetti strategici dello schieramento alpino, spostandone il focus ad occidente. Non si deve, tuttavia, pensare che Italia e Impero AU si fidassero ciecamente l’una dell’altro: dietro la facciata delle buone relazioni diplomatiche restavano molte diffidenze, che si concretizzavano in una fortificazione costante dei confini, che, ovviamente, riguardò anche lo schieramento delle truppe alpine. In estrema sintesi, tra il 1872 e il 1914, il reclutamento alpino crebbe esponenzialmente. Dapprima, furono formate, a titolo quasi sperimentale, le famose 15 compagnie: l’anno dopo, queste passarono a 24, poi, divennero battaglioni, reggimenti e, infine, addirittura divisioni. Al termine di questo processo, l’organico del Corpo d’Armata alpino contava centinaia di migliaia di uomini, reclutati in tutte le regioni d’Italia.
Originariamente, l’equipaggiamento dei fanti di montagna non si differenziava granché da quello della normale fanteria, fatti salvi gli scarponcini con chiodi o broche e il cappello alla calabrese, con una penna nera di corvo e un fregio metallico. Le mostrine furono di color verde, come nella tradizione della fanteria leggera e delle truppe da montagna europee (i Kaiserjaeger, ad esempio, tipica fanteria leggera austriaca, portavano un piumetto di gallo forcello sul berretto e avevano mostrine verdi. Mostrine verdi avevano anche gli Edelweiss tedeschi e i Landesschuetzen). Non era previsto, invece, un vero e proprio equipaggiamento d’alta montagna: corde manilla, ramponi a otto punte, piccozze, almeno all’inizio, erano prerogativa solo di chi si procurasse questi materiali privatamente: ancora nel 1916, Nino Calvi, capitano del battaglione autonomo “Garibaldi”, in Adamello, scriveva a casa per commissionare alla famiglia l’acquisto, presso un noto negozio di articoli sportivi, di sacchi a pelo per i suoi uomini, dislocati sulle quote più alte. Nei primi impieghi operativi veri e propri, poi, gli Alpini furono dotati di equipaggiamento coloniale, dato il loro schieramento in Africa Orientale, dove parteciparono alle sfortunate battaglie dell’era Baratieri, Adua in particolare, in cui le batterie da montagna della brigata Albertone diedero ottima prova di sé. Questo equipaggiamento non aveva nulla di alpino e si rivelò del tutto inadeguato, tanto al clima quanto all’impiego. In compenso, però, da allora gli Alpini furono dotati del fucile Carcano mod.91, che sarebbe stato il loro fedele compagno fino a dopo la seconda guerra mondiale, quando venne sostituito dal Garand M1 e dal F.A.L. Fu nel 1906 che un primo plotone di Alpini, definito a ragione sperimentale, il cosiddetto “plotone grigio”, adottò la divisa mimetica grigioverde, con mantellina e cappello: allo scoppio della prima guerra mondiale, l’aspetto di un Alpino non era molto diverso da quello tradizionale, impresso nella fantasia di tutti, con le fasce mollettiere e la penna di sbieco. Dunque, trascorsi poco più di quarant’anni dalla loro creazione, gli Alpini erano una parte importante delle forze armate italiane: sarebbe stata, però, la Grande Guerra a consacrarne il mito.
E su questo mito, vale forse la pena di spendere due parole, per contestualizzarlo e, in parte ridimensionarlo.
Per certo, nel corso della prima guerra mondiale, gli Alpini hanno compiuto imprese che, oggi, hanno dell’impossibile: si trattò, perlopiù, di azioni compiute da piccoli reparti, in contesti alpinistici complessi e in ambiente montano molto severo. Queste imprese sono state spesso enfatizzate dalla propaganda italiana e, talvolta, perfino da quella avversaria. La frase di Alice Schalek, riferita alla conquista del Monte Nero è divenuta proverbiale: Hut ab vor den Alpini. Das war ein Meisterstück. Giù il cappello davanti agli Alpini: questo è stato un capolavoro. Tuttavia, il sacrificio degli Alpini, che pure c’è stato ed è stato importante, ha creato un processo di “reductio ad unum”, che ha, in molti casi, eclissato il valore di reparti meno noti e blasonati. In definitiva, alcuni reparti, come gli Alpini, i Bersaglieri, gli Arditi, la “Sassari”, hanno monopolizzato la scena, in virtù della loro riconoscibilità o della curiosità suscitata nel pubblico, a scapito delle normali formazioni di fanteria, che hanno, viceversa, sostenuto il peso maggiore del conflitto, anche in termini di perdite. Dunque, gli Alpini hanno rappresentato e rappresentano una significativa sorgente mitopoietica, oltre che una realtà gloriosa e molto amata dell’Esercito italiano. Basti pensare alla “fake news” del bollettino di guerra sovietico, in cui, all’indomani della battaglia di Stalingrado, i comandanti dell’Armata Rossa avrebbero riconosciuto l’invincibilità degli Alpini in territorio russo: l’idea che una struttura propagandistica come quella sovietica s’inchinasse all’avversario, riconoscendone il valore è, di per sé, un’ipotesi fantascientifica. Ciò nonostante, questa leggenda perdura e viene tramandata per iscritto e nelle celebrazioni ufficiali, a fronte di smentite e chiarimenti. Vero è che, se la prima guerra mondiale rappresentò la consacrazione del valore delle penne nere, la seconda significò la monumentalizzazione del loro sacrificio: la ritirata, Nikolajevka, le marce del Davai, l’attesa dei dispersi, sono altrettanti punti fermi della tradizione alpina. Le cante alpine, ad esempio, incarnano al meglio lo spirito di corpo degli Alpini: spirito basato non tanto su valori militari, quanto su valori umani, paesani, familiari. Anche per questo gli Alpini sono così amati, probabilmente. Ciò nonostante, va detto che sul fronte greco-albanese come sul Don, le truppe alpine scrissero pagine di straordinario valore militare: tuttavia, questo valore non è mai puro e semplice eroismo, ma reca con sé sempre una carica di umanità del tutto peculiare.
Venendo a giorni più vicini a noi, un altro tassello è andato ad aggiungersi a quelli di cui abbiamo parlato, a proposito del carattere degli Alpini e della loro storia: quello del volontariato e della solidarietà. E’ stato il Presidente ANA Caprioli a comprendere per primo l’importanza di questa svolta, diciamo così, umanitaria. Lui ha lanciato il motto: “Onorare i morti aiutando i vivi”, che degli Alpini è, oggi l’impresa principale. La storia recente è piena di episodi in cui le truppe alpine o gli Alpini in congedo hanno dato un importante contributo alla vita del nostro Paese, con un enorme numero di iniziative di protezione civile, di assistenza ai meno fortunati, di raccolta fondi. Anche questo è un elemento essenziale dello spirito alpino.